Profughi veneziani a Rimini nel 1917

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Lapide del 1919 presso il cimitero monumentale di Rimini in ricordo dei 300 profughi veneziani morti nella cittadina adriatica

Fin dal 1916 Rimini ospitò una trentina di famiglie friulane profughe, scappate dalle zone di guerra e in condizioni miserevoli. Furono aiutate, in una sorta di gara di solidarietà, dall’intera cittadinanza e da un comitato cittadino Pro-Profughi. Ma è a partire dalla disfatta di Caporetto che l’ospitalità riminese venne messa seriamente alla prova. Dalla fine di ottobre ai primi di novembre del 1917 in città giunsero circa 2000 profughi friulani, a cui si aggiunsero ben presto, come un fiume in piena, i veneti coinvolti nell’avanzata austro-ungarica, reparti dei quali si resero responsabili di violenze nei confronti della popolazione e delle donne in particolare. Al comune di Rimini (che allora comprendeva anche Riccione e Bellaria) furono destinati 12.153 profughi (che rappresentavano poco meno del 30% della popolazione residente nel comune, 41.948 abitanti censiti nel 1911). I nuovi arrivati furono sistemati soprattutto nei villini requisiti in zona mare. Il più delle volte si trattava di edifici senza riscaldamento e senza coperte, in quanto di esclusivo uso estivo e in essi vi venivano stipate, in casi limite, fino a 40 persone per villino. Ci furono quindi proteste sia dei profughi per le dure condizioni di vita, sia dei proprietari che subirono talvolta furti di arredi e danni alle strutture. Tuttavia, se è vero che agli atti rimarranno quasi solamente i fatti di cronaca (non mancarono anche furti di altro genere ed episodi di ubriachezza), è indubbio che l’accoglienza dei riminesi si dimostrò generosa, con feste di beneficenza, doni da parte della cittadinanza e con la nascita di un ulteriore Comitato cittadino Pro Profughi. La Croce Rossa americana aprì un ospedale per i veneziani nel Sanatorio Comasco (dal 2004 scuola Karis); la chiesa dei salesiani di Santa Maria Ausiliatrice, divenne la chiesa dei veneziani, coi parroci veneti che celebravano la messa per i profughi; 2.500 nuovi alunni iniziarono l’anno scolastico, chi nelle aule, chi nei locali di ristoranti e alberghi. Furono poi organizzati laboratori di cucito per le donne ed aprirono diverse botteghe gestite da veneziani. Lo stesso comune di Venezia aprì una sede distaccata a Rimini, presso l’hotel Tergeste (allora villa Iolanda Margherita), visitata anche dal patriarca di Venezia, monsignor Pietro La Fontaine nel settembre 1918 nel corso della visita pastorale ai veneziani nel riminese. Gli ultimi profughi lasciarono la città nel marzo del 1919, dopo un’ultima grande cerimonia nelle sontuose sale del Kursaal, alla quale presenziarono le autorità riminesi e veneziane.

L’ultimo saluto della città di Rimini ai profughi nel 1979

Quello che fu probabilmente l’ultimo atto della vicenda dei profughi veneziani a Rimini ebbe luogo nell’ottobre del 1979. L’anno precedente, esattamente il 2 novembre 1978, venne consacrata la nuova chiesa di San Francesco all’interno del cimitero di Rimini. Il comune di Venezia, in segno di gratitudine per l’ospitalità concessa tanti anni prima ai suoi concittadini, si fece carico delle spese (un milione di lire) per la nuova campana della chiesa. A ricordo, ancora oggi, si legge nel bronzo fuso, l’iscrizione Campana offerta dalla città di Venezia alla Chiesa Cimiteriale San Francesco di Rimini Anno Dom. MCMLXXIX. Benedetta a Roma da papa Giovanni Paolo II la Campana della Preghiera, come venne chiamata, verrà elevata sul campanile il 20 ottobre 1979 alla presenza delle autorità civili, militari e religiose, dei sindaci di Rimini e Venezia e dei gonfaloni delle due città. Su iniziativa del comune di Rimini furono invitati anche i profughi superstiti, ritrovati con annunci pubblicati sul giornale Il Gazzettino. Parteciparono in una cinquantina, tra parenti dei deceduti sepolti a Rimini e profughi, trentaquattro, alcuni dei quali con ancora nella carta d’identità la dicitura Nato a Rimini. Madrina della cerimonia fu la signora Emilia Mèdail, ragazzina profuga che in seguito sposò un riminese, segno dei tanti legami personali che si erano venuti a creare tra le due città. Il comune di Rimini, oltre ad offrire il viaggio, portò i superstiti, nonostante i grandi cambiamenti urbanistici, nei luoghi dove erano stati alloggiati nel 1917, offrì loro un pranzo al ristorante e consegnò una medaglia d’oro al benemerito concittadino Umberto Bartolani artefice dell’operazione. Il giornale Il Gazzettino del 26 ottobre 1979 ricordò anche come, durante il viaggio, agli anziani profughi fosse lentamente tornata in mente la canzone Adio Venessia composta durante l’esilio, le cui strofe finali suonavano così: … arivati a Chiogia ci misero acampati / come fussimo stati i povari soldati / dopo tre ore bone rivata la tradotta / ai povari bambini un poca de acqua sporca / e a noi par colassione la carne congelada / che dentro ghe conteneva qualche bona pissada / dopo quarantotto ore del nostro penoso viagio / siamo rivati a Rimini uso pelegrinagio.
La campana veneziana avrebbe dovuto suonare lenti rintocchi ogni giorno all’ora del tramonto, in ricordo dei veneziani deceduti, rituale che cadde ben presto nell’oblio, così come il ricordo dell’intera vicenda.

Riferimenti bibliografici

  • Rimini negli ultimi due secoli (Volume Primo) di Nevio Matteini, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 1977.
  • Vivere a Rimini negli anni della Grande Guerra, di Davide Bagnaresi, Panozzo Editore, Rimini, 2015.
  • Così ho amato la mia Rimini, di Umberto Bartolani, Maggioli Editrice Rimini, Villa Verucchio, 1980.

Nota su una scomparsa lapide veneziana

Come riportato da Nevio Matteini (Rimini negli ultimi due secoli, Volume Primo, pag. 350) a Rimini esisteva un’altra lapide, forse quella più importante in quanto situata nella chiesa di riferimento per i profughi veneziani, quella di Santa Maria Ausiliatrice, conosciuta dai riminesi come chiesa dei Salesiani. La lapide, in ricordo della visita del patriarca di Venezia La Fontaine, fu scoperta il 25 dicembre 1918, a guerra finita ma con ancora un gran numero di profughi alloggiati nella cittadina adriatica. Alla cerimonia assistettero migliaia di veneziani, gli esponenti del comune di Venezia, del comitato di assistenza ai profughi e il corpo insegnante di Venezia. La lapide, situata nel corridoio di accesso al coro, andò probabilmente perduta coi lavori di ampliamento della chiesa negli anni 1962-1963. Già allora il Matteini poneva una giusta questione: ma non si potrebbe rifarla?

Il 7 settembre MCMXVIII
in questo tempio
il cardinale Pietro La Fontaine
patriarca di Venezia
nel visitare i figli
profughi su questa spiaggia adriatica
esaltata la misericordia divina
più grande nell’ora della tribolazione
con parola vibrante di amore
ne ritemprava lo spirito
alla fortezza cristiana
alla fede nelle sorti della patria
Rese grazie all’Altissimo
qui tante volte fervidamente invocato
per la salvezza la vittoria d’Italia
i profughi di Venezia
nel primo Natale di pace. 

Nota sulla lapide di Villa Tergeste

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Hotel Tergeste di Rimini: lapide in ricordo della sede distaccata del comune di Venezia a Rimini.

La vicenda dei profughi, soprattutto dopo i travagliati anni della seconda guerra mondiale, cadde in una sorta di oblio della memoria collettiva, almeno fino alla stampa nel 1977 del libro Rimini negli ultimi due secoli (volume primo) di Nevio Matteini, dove alle pagine 357-362 fu riportato in vita il particolare momento di storia cittadina. In occasione della mostra Ricordare la grande guerra allestita presso il Museo Comunale di Rimini, lo scrivente ebbe occasione, il 17 ottobre 2008, di sottoporre all’attenzione del fondatore dell’associazione Aries, Gaetano Rossi, lo studio di Nevio Matteini. Celermente, il 13 febbraio 2009, la stessa Aries (Associazione Ricerche Iconografiche e Storiche) provvide alla posa di una lapide sul muro di cinta dell’hotel Tergeste (oggi Villa Tergeste, civico n. 65 di viale Vespucci), in ricordo della sede del distaccamento del comune di Venezia.

Nota sul nome Tergeste

La Villa Iolanda Margherita, sede distaccata del comune di Venezia tra il 1918 e il 1919 a seguito della disfatta di Caporetto, venne acquistata nel dopoguerra dal capitano marittimo Guglielmo Biffi, prendendo il nome di Pensione Tergeste e tornando quindi ad ospitare i villeggianti. Per uno strano gioco del destino l’edificio continuava quindi ad avere indirettamente un legame coi fatti della prima guerra mondiale, essendo Tergeste (o Tergestum) il nome latino di Trieste, città irredenta per antonomasia, uno dei motivi dell’entrata in guerra dell’Italia. L’aspetto attuale, simile ai tanti villini liberty che un tempo costeggiavano la marina, lo si deve ai lavori degli anni Trenta, coi quali venne costruita la caratteristica esedra su Viale Vespucci e l’innalzamento di un piano. Chiusa nel 1981 ha recentemente riacquistato il suo antico splendore.

Brevi note sui legami storici tra Rimini e Venezia

L’arrivo dei profughi veneziani nel riminese rappresentò l’ultimo di una serie di forti legami secolari tra Venezia e Rimini ed è probabile che al momento dell’arrivo dei profughi ci fosse ancora in città qualche anziano pescatore la cui madrelingua era del tutto particolare, di origine veneziana. Ma andiamo con ordine: il legame tra Rimini e Venezia fu indubbio e saldo per lunghi secoli, almeno fin da quando la città lagunare ebbe il predominio sui mari. L’influsso che essa esercitò sulla città dei Malatesta andò ben oltre il breve governo della Serenissima avutosi tra il 1503 e il 1509 (Carlo Tonini, bibliotecario e storico riminese, scrisse che il passare sotto il dominio della Repubblica Veneta tornò graditissimo alla città nostra e il pennone con lo stendardo raffigurante il leone di San Marco svettava più alto di tutti nella piazza del Mercato, oggi piazza Tre Martiri, visibile anche dal mare; un altro era situato dinnanzi alla chiesa di San Nicolò, conficcato nella pietra d’Istria nella quale era scolpito lo stesso leone). Da sempre la città di Rimini doveva gran parte dei suoi commerci al porto marittimo e a maggior ragione ciò avvenne con il dissolversi dell’impero romano e la progressiva scomparsa delle vie di comunicazione terrestri. Il commercio avvenne quindi, nei secoli successivi, quasi esclusivamente per via marittima, più sicuro e con tempi infinitamente minori rispetto a quello terrestre. Gli scambi tra le opposte sponde adriatiche erano intensi e continui e qualsiasi marinaio, fosse esso originario di una sponda o l’altra dell’Adriatico, conosceva i profili costieri della parte dirimpettaia con la quale commerciava. Le partenze, gli arrivi, gli scambi erano quindi intensi coi porti istriani, dalmati, ma soprattutto triestini e veneziani, in particolare con quello di Chioggia. L’interscambio commerciale necessitava di una lingua comune per gli addetti ai commerci e ai traffici marittimi e questa era la lingua franca dell’Adriatico, ossia il veneziano.
– La lingua chioggiotta (il portolotto) parlata a Rimini
Assistiamo così ad un fenomeno poco conosciuto e poco studiato per la mancanza di fonti e testimonianze, ossia la presenza all’interno della città di Rimini di una consistente fetta di popolazione che utilizzava non il dialetto riminese, ma quello che verrà definito il portolotto, ossia un dialetto veneto, affine al chioggiotto, senza alcun legame né con il dialetto riminese, né con la lingua romagnola e nemmeno coi dialetti gallo-italici. Già lo studioso Tonini rivelava come nel rinnovo dello Statuto riminese del 1334 si menzionasse il nostro Paron di barca, sintomo di un già diffuso uso della lingua veneta. Il Portolotto veniva parlato dagli abitanti del borgo Marina, il quartiere dei marinai e dei pescatori, probabilmente utilizzato anche nel borgo San Giuliano dove numerose erano le attività legate al porto. Forse era capito anche da una parte della popolazione urbana, sicuramente da quelli che per un motivo o per l’altro avevano necessità di entrare in contatto con le attività della pesca o del commercio. La lingua non era invece compresa fuori dai confini cittadini, cosicché si potrebbe parlare di una vera e propria isola linguistica i cui componenti praticavano il bilinguismo chioggiotto-riminese. Il dialetto era quello chioggiotto in quanto numerosi furono nel corso dei secoli, fin dal periodo medievale, gli immigrati provenienti, oltre che dalla laguna, soprattutto da Chioggia e che qui si stabilirono con le famiglie impiantando talvolta le loro botteghe, legate soprattutto alla marineria. Nel 1864 il Tonini registrava 5284 portolotti tra pescatori e loro familiari e commercianti, ossia poco meno di un terzo degli abitanti totali, che avrebbero quindi potuto parlare la lingua o quanto meno intenderla. A partire dal periodo Ottocentesco, con le mutate condizioni politiche, i cambiamenti tecnologici, le nuove vie di comunicazione, si assistette alla progressiva diminuzione dell’uso del portolotto, i cui ultimi parlanti sopravvissero fino ai primi decenni del Novecento per scomparire, con ogni probabilità, attorno agli anni Venti-Trenta.
Poche sono le testimonianze giunte fino a noi del portolotto (in tutti undici brevi frasi). Una di queste fu ritrovata da Piero Meldini nelle cronache manoscritte di Filippo Giangi, 1845 : Fora, gente tuta, portémo el gran in tera! Fora, fora, no lasémo andar via la grazia di Dio! (Romagna arte e storia, anno III n. 9 1983, pag.93).
Come osservarono giustamente Quondamatteo e Bellosi “i marinai riminesi si intendevano meglio con quelli dell’isola di Veglia, nel Quarnero, che non con i contadini di San Vito, a due, tremila metri in linea d’aria” (Il portolotto, in Romagna civiltà, 1977).
– L’informazione da Venezia
Un aspetto sicuramente secondario, ma utile per capire gli influssi culturali, nonché sociali, riguarda l’informazione attraverso i giornali. Fin dal 1660 a Rimini veniva stampato un giornale, la Gazzetta di Rimini che probabilmente sotto nomi diversi (Rimini e Rimino) continuerà ad essere stampato anche nel secolo successivo. Il Rimino usciva una volta alla settimana, il sabato ed invariabilmente le notizie cominciavano da Venezia, ritenuta quindi la città di riferimento, sebbene collocata in uno stato estero rispetto a Rimini. Interessante notare il tempo intercorso tra la data della notizia e la sua pubblicazione, legato ovviamente ai mezzi di trasporto dell’epoca. La classifica vede ancora una volta Venezia al primo posto, in parte perché le notizie giungevano a Rimini via mare, con imbarcazioni che facevano regolarmente la spola con la laguna in modo molto più veloce rispetto alle notizie che viaggiavano via terra spesso su malmesse o inesistenti strade, ed in parte perché a causa dei forti legami commerciali e di altro genere, si riteneva più importante ciò che accadeva a Venezia rispetto ai fatti di altre località. I tempi delle notizie erano:

  • Venezia 3-4 giorni;
  • Milano 6 giorni;
  • Genova 9-10 giorni;
  • Firenze, Roma 10 giorni;
  • Monaco 11 giorni;
  • Gratz (Graz) 14 giorni;
  • Vienna 14-17 giorni;
  • Colonia 15-16 giorni;
  • Amburgo 16-19 giorni;
  • Amsterdam, Zurigo, Possonia (Bratislava) 17 giorni;
  • Parigi, Londra, Varsavia 24-25 giorni;
  • Madrid 28 giorni.

– Testimonianze superstiti veneziane a Rimini
Una delle poche testimonianze veneziane rimaste in città è l’edificio in via Tonini detto il Canevone dei Veneziani, oggi un ristorante, risalente al Duecento e donato nel Quattrocento all’Ordine della Misericordia di Venezia che possedeva già in città una chiesa e l’ospedale della Misericordia (si tratta della chiesa sconsacrata, Santa Maria ad Nives in corso d’Augusto, che dal 2016 ospita il Visitor Center della Rimini romana). L’edificio divenne coi veneziani un magazzino (con canevone nel veneziano si indica un magazzino per il sale o per i cereali oppure una bottega di vino), utilizzato per depositare le merci dei commercianti lagunari, i quali nelle vicinanze avrebbero potuto frequentare l’oratorio di San Marco, all’angolo tra le attuali via Clodia e via Bastioni Settentrionali dove c’era il Collegio dei Veneziani. Sulla facciata del Canevone spicca l’iscrizione L’antichissimo Canevone di Santa Maria della Misericordia di Venezia, 1683, con lo stemma dei Moro, famiglia mercantile veneziana, in cui la data si riferisce ad una probabile ristrutturazione. All’interno è ancora visibile la fossa per il grano (sul cui fondo fu ritrovato un lastricato in sassi di fiume, probabilmente di epoca romana), le antiche travature in legno di larice, tipiche veneziane, le originali grate alle finestre e il bel portone in legno.
A Borgo Marina esiste ancora oggi via Clodia, nel Rione Clodio, dal nome latino della città di Chioggia, dalla quale provenivano gran parte degli abitanti di questa parte di città. Il quartiere fu pressoché distrutto dai bombardamenti alleati del 1943-1944, cancellando definitivamente ogni testimonianza dell’antico quartiere portolotto.
– La Benedizione del Mare
Una delle tradizioni veneziane che persisteranno più a lungo in città fu l’antica cerimonia della Benedizione del Mare nel giorno dell’Ascensione, ad imitazione di quella praticata, ancora oggi, a Venezia (lo Sposalizio del Mare che ai tempi della Serenissima simboleggiava il dominio marittimo di Venezia). Sulla punta del molo, alla presenza del vescovo e con gran presenza di popolo, veniva gettato in acqua un anello di cera a cui seguivano le preghiere di rito. La solenne festa venne celebrata fino al 1854, sostituita poi da una in forma minore e in seguito da una semplice celebrazione all’interno del Duomo che sopravvisse fino ai primi decenni del Novecento. Probabilmente suggestiva e significativa dal punto di vista storico potrebbe risultare una riproposizione dell’antica cerimonia.
– L’influsso della lingua veneta nel mondo marinaio
Grande influsso la lingua veneta ebbe nel mondo della marineria in tutta la Romagna, così come in tutto l’alto Adriatico. A titolo di esempio elenchiamo alcuni nomi di specie marine in tre diversi dialetti di località un tempo molto più legate tra loro rispetto al presente: Venezia, Lussino (oggi Lošinj in Croazia, isola dirimpettaia alla Romagna) e Rimini:

    nome italiano               Venezia                      Lussino            Rimini

  • gabbiano               cocàl                          cocàl                 cuchèl
  • cozze                    peòci                          peòci                 bdòcc
  • vongole                 bavarasse                                           puràzi
  • branzino/spigola   branzin                       branzin             branzèin
  • granchio               granseola                   granseola         granzèla
  • aguglia                 bisogola                      bisigola             bicòun
  • pagello                 albaro                         albero               alboretto
  • polipo                   folpo                            folpo                 fèulp
  • scorfano              scarpegna/scarpena    scarpena          scarpigna
  • Gallinella             anzoleto                       anzolo              mazola

Riferimenti bibliografici

  • Per il portolotto: Rimini 1800-1860: la cultura portolotta di Piero Meldini, in Romagna arte e storia n. 9, 1983, volume dedicato agli studi sulla marineria.
  • Per il giornale il Rimino: Il Rimino, una delle prime gazzette d’Italia, saggio storico sui primordi della stampa, di Nevio Matteini, Cappelli editore, 1967.
  • Per la Benedizione del mare: Il porto di Rimini dalle origini a oggi di Alessandro Serpieri, Luisè editore, 2004

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